Love Life

Kôji Fukada
Giappone
Direttamente dalla 79° Mostra del Cinema di Venezia...
Taeko vive felicemente con il giovane sposo Jiro e il piccolo Keita, nato da una relazione precedente. Tutto ciò che desidera è l'approvazione di suo suocero, che stenta ad arrivare. Un incidente domestico riscrive però improvvisamente la vita di Taeko e di chi le sta vicino e determina il ritorno del padre biologico di Keita, Park, di cui la donna non aveva notizie da anni.
con Fumino Kimura, Kento Nagayama, Atom Sunada
7€; 5.50€ ridotto
Orari di proiezione:
venerdì 9 settembre ore 21;
sabato 10 settembre ore 21;
domenica 11 settembre ore 18.30
La miglior regia del concorso di Venezia 79 è probabilmente quella di Koji Fukada in Love Life, apparente dramma spicciolo sulla perdita di un bambino dal punto di vista dei genitori, in realtà una collezione dolce e analitica al contempo di relazioni, sguardi e maniere di comunicare fra esseri umani. Sulla scorta di esperienze come quelle del cinema di Ryusuke Hamaguchi o di Kiyoshi Kurosawa, Fukada ha l’ambizione di descrivere la prossemica dei suoi personaggi più che le loro psicologie, quasi come in un Mizoguchi più patinato e moderno. La cura maniacale per la costruzione del quadro, per le dinamiche degli sguardi nei campi/controcampi, per le posizioni dei personaggi negli ambienti, lascia intendere un’idea di cinema di rigore passionale, dettata da ritmi rallentati e lunghissimi tempi di attesa.
Il film meriterebbe delle analisi sequenza per sequenza per raccontare come si snocciola il dramma della madre protagonista, dopo la morte del figlio piccolo avuto dal primo marito sordomuto; mentre Fukada costruisce con certosina attenzione la codardia assoluta del secondo marito della protagonista, quest’ultima trova nel primo marito (ingenuo e vagamente violento) un appiglio per non dimenticare il figlio morto, e per far bruciare il lutto a fuoco lento. Sensi di colpa, dubbi e angosce alimentano ancora di più il dramma, mentre la camera e il montaggio sospesi e ipnotici lo sottopongono a una perizia entomologica fatta di riprese amatoriali, dischi riflettenti appesi sui balconi e linguaggio dei segni: alla fine sono tutti indizi per disorientare lo spettatore, illuso e deluso da almeno 4 finte catarsi e ribaltato da cambi di rotta che flirtano col grottesco e con la teatralità melodrammatica. Un piccolo capolavoro che fa sentire finalmente in Occidente del cinema giapponese non condannato dal filtro dell’occidentalità, che non vuole per forza piacere agli occidentali, che ha dei tempi suoi e non ha paura di trasformare i suoi personaggi quasi in statue o fantasmi secondo che la scena lo richieda.
Recensione tratta da Filmtv.it