Super Size Me

Data:
02/09/2025
Orario:
19:00
Rassegna:
2013OfficinaVisionaria

Regia: Morgan Spurlock (Usa, 2004) 98’


Scuola secondaria di secondo grado



gratuito su prenotazione

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Partendo dal dato che negli Stati Uniti il 37% degli adolescenti supera il proprio peso forma e due adolescenti su tre sono sovrappeso o obesi, il regista Morgan Spurlock ha viaggiato per 25mila miglia, visitando 20 città americane con i loro relativi Mc Donald’s, decidendo di mangiare per 30 giorni solo nei fast food. Durante il viaggio, in cui ha effettuato 250 ore di riprese, ed ha preso 13 kg di peso, ha intervistato medici generici, preparatori atletici, cuochi, ragazzi, avvocati, per denunciare con fermezza il fenomeno dell’obesità negli Usa, il declino dell’educazione fisica nelle scuole, la dipendenza dal cibo e i provvedimenti estremi che vengono presi per perdere peso.

Mangiare male, di corsa, dove capita, sapendo che non ci sarà tempo per una passeggiata e nemmeno per un po’ di esercizi in palestra. Mangiare all’americana, nel segno dei fast-food, dove i cibi sembrano giocattoli colorati e i cuochi sono ragazzi in divisa capaci di sfornare piatti in un pugno di secondi. Oppure mangiare bene, con i tempi giusti, verdure più o meno uguali a com’erano quando sono state raccolte, polli a forma di polli, con le cosce e il petto, non quadrati o triangolari come diventano, una volta fritte, certe strane misture che dei volatili sono solo un pallido ricordo. Due schieramenti e una guerra aperta, da una parte le salse in bustine, dall’altra il vecchio e sano olio d’oliva. E non si tratta solo di problemi da tavola. C’è di mezzo lo scontro tra due culture, tra l’hamburger che avanza e fa male, e gli spaghetti al filetto di pomodoro, semplicissimi, ma pur sempre bisognosi del loro tempo di creazione. In America ha già vinto il primo esercito, con risultati preoccupanti, visto che oltre il 60% della popolazione è in sovrappeso, mentre il 20% degli adulti e il 15% dei bambini soffrono di obesità. Qualcheduno ogni tanto si ribella, come le due ragazze che, nel 2002, decisero di querelare McDonald’s con l’accusa di averle fatte diventare obese. È stato quel gesto, forse un po’ tardivo, a spingere Morgan Spurlock, regista di video musicali e spot pubblicitari, a dedicare il suo primo lungometraggio, Super Size Me, al tema dell’alimentazione negli States. Protagonista del film (da dopodomani sui nostri schermi) è il suo apparato digerente, sottoposto per un mese intero a una dieta ferrea fatta solo, e rigorosamente, di cibi MacDonald’s. Risultato, quattordici chili in più. Nel lungo viaggio attraverso il suo Paese (circa 2500 miglia per circa 250 ore di riprese, compresa la tappa fondamentale in Texas, a Detroit e Houston, capitali dell’obesità), Spurlock ha intervistato alunni, insegnanti, cuochi, legislatori, medici, esperti. Ma soprattutto ha osservato i mutamenti del suo corpo, il tasso di zuccheri che saliva alle stelle, il fegato che funzionava sempre peggio, le prestazioni sessuali compromesse, l’umore nero e soprattutto un’inquietante forma di dipendenza per cui solo un bel Big Mac riusciva a dargli, almeno per un poco, l’illusione di sentirsi meglio. Il tono del racconto è sempre ironico, ma se qualcuno ha paragonato il film al documentario di Michael Moore Bowling for Columbine, dedicata alla mania americana per le armi, si capisce che la carica eversiva è dirompente. Un gran pugno negli stomaci disastrati dei tanti affezionati fruitori di panini con la carne e sacchetti di patatine.

In Italia la diffusione dei fast-food ha i suoi fieri oppositori: «Ci sentiamo come David nei confronti di Golia – ha dichiarato l’altra sera a Roma Silvio Barbero di “Slow food”, durante il dibattito organizzato da Fandango per il lancio del film. Tentiamo di portare avanti un discorso che riguarda la cultura alimentare, la difesa dell’identità territoriale e un modello legato alle piccole realtà produttive. Insomma, parliamo di democrazia alimentare». Dal fronte opposto Alfredo Pratolongo, direttore della comunicazione McDonalds in Italia, ribatte a suon di numeri: «Il sensazionalismo non è mai uno strumento utile a un’educazione corretta. La verità è che in Italia esistono, nel campo della ristorazione, 250mila esercizi, 80mila bar e 300 Mac Donald’s. La frequenza media, per questi ultimi, è di una volta ogni quindici giorni». E non basta, Pratolongo fa sapere che, almeno nei locali sparsi nella penisola, la carne proviene da bovini italiani, il pollo è Amadori, le insalate controllatissime, il pane fatto secondo le regole della migliore tradizione: «Le aziende italiane di McDonald’s mettono un grande impegno per integrarsi nel sistema Paese». Da qualche tempo anche da noi, sul retro delle tovagliette di carta su cui vengono serviti i cibi, sono comparsi gli schemi con le informazioni nutrizionali. Nel film, per trovarle, Spurlock mette a dura prova la pazienza di direttori e inservienti di molti locali. Quasi sempre le notizie non vengono fornite ai consumatori, qualcuno le tiene sepolte in cantina, altri preferiscono occultarle dietro grandi cartelli pubblicitari, altri ce le hanno appiccicate al muro, ma è impossibile portarsele via e leggerle con calma.
Il problema, sottolinea Eugenio Del Toma, professore in Scienze dell’alimentazione, riguarda principalmente lo stile di vita: «Dobbiamo insegnare ai ragazzi e alle famiglie regole che iniziano dalla varietà alimentare, le porzioni non possono essere ridotte per legge, bisogna invece tenere presente l’entità della spesa energetica». Attenzione particolare dovrebbe essere rivolta ai consumatori più piccoli, bombardati dalle pubblicità dei fast-food piazzate sempre nel bel mezzo dei loro programmi preferiti, cartoni animati in testa. L’Organizzazione mondiale della Sanità ha lanciato un appello proprio in questo senso, chiedendo che ai bambini vengano proposti meno spot dei fast-food e più diete a basso contenuto di zucchero. Ovviamente la prima a insorgere è stata l’industria interessata. Una reazione che si ripete puntuale, ogni volta che un appello per il bene di tutti va a toccare gli interessi di pochi.
Fulvia Caprara, La Stampa, 6/4/2005