Hannah Arendt
Regia: Margarethe von Trotta (Germania-Lussemburgo-Francia, 2012) 113’
Scuola secondaria di secondo grado (ultimo biennio)
Nel 1940, la filosofa ebreo-tedesca Hannah Arendt fugge con il marito e la madre dagli orrori della Germania nazista e, grazie all’aiuto del giornalista americano Varian Fry, si trasferisce negli Stati Uniti. Divenuta tutor universitario e attivista della comunità ebraica di New York, Hannah inizia a collaborare con alcune testate giornalistiche, tra cui il New Yorker che la invia in Israele per seguire da vicino il processo contro il funzionario nazista Adolf Eichmann. Da qui Hannah prenderà spunto per scrivere il libro “La banalità del male”, un testo che susciterà molte controversie...
Tensione etica, è quello che si respira in questo film. Sete di verità. Coraggio delle proprie opinioni. E bisogno di confronto, della Arendt come della Von Trotta, che non ha scelto a caso il suo soggetto: «Non faccio film per mandare messaggi, ma per ritrarre persone che mi piacciono o che mi interessano», ha dichiarato, e della Arendt ciò che più la interessava era l’indipendenza intellettuale, il fatto che fosse «una donna che pensa», e il film cerca, appunto, di ricostruire il suo pensiero e la sua ricerca di comprensione e verità, effettuata nel caso del processo ad Eichmann a costo di evidenziare degli aspetti della questione talmente “scomodi” da creare una controversia, com’è stata chiamata la mole di critiche che l’hanno investita (e come doveva chiamarsi, tra l’altro, il film), a cui ha dovuto a un certo punto rispondere pubblicamente.
[...] Poteva descriverlo come un mostro, Eichmann, Hannah Arendt; poteva renderlo come l’opinione pubblica si aspettava, l’incarnazione del male; poteva mostrare il popolo ebraico come una vittima sacrificale, il bene assoluto contrapposto al male assoluto (come aveva definito il totalitarismo nel testo che per primo lo analizza, equiparando coraggiosamente, e anche in questo caso suscitando critiche, il nazismo allo stalinismo); ma per amore di verità, illuministicamente (kantianamente) ragionando con la propria testa, ha elaborato per Eichmann un concetto, quello di banalità del male, che è diventato categoria storica riconosciuta. Anche se ci mette in crisi, ovviamente; perché mentre facciamo fatica a identificarci con il “male” e possiamo ritenere rassicurante che esistano dei “malvagi” che non siamo noi e che all’occorrenza possiamo combattere, con un male “banale” siamo costretti a fare i conti, perché tutti noi potremmo incarnarlo, in momenti particolari dell’esistenza (e della storia). E in questo senso la filosofa fa emergere tutta la fragilità dell’uomo, la debolezza della natura umana, senza giustificarla: semplicemente osservandola. [...]
Paola Brunetta, Cineforum n. 532, 3/2014